La cassetta degli attrezzi: quali utilizziamo di fronte alle nostre scelte Simone Coren 28/05/2022

La cassetta degli attrezzi: quali utilizziamo di fronte alle nostre scelte

Domenica scorsa ero a casa di una coppia di amici. Mentre io e il mio amico stavamo bevendo una birra fresca in attesa che le nostre ragazze si preparassero per un piacevole spritz a Lignano, ci è capitato l’argomento “mensole” in casa (sarà che la mia ragazza recentemente mi ha chiesto di andare più volte all’IKEA per prenderne un paio). Ad un certo punto, il mio amico mi fa: “Vieni, ti faccio vedere la mia cassetta degli attrezzi con cui ho messo le ultime mensole”. Lo seguo, interessato dall’argomento (ultimamente sto pensando anche io di prenderla, dato che i diversi attrezzi che ho stanno aumentando). Esce fuori dallo sgabuzzino con una grande cassetta piena di attrezzi “Vedi, qui ho messo l’avvitatore elettrico, qui i cacciaviti, lì i guanti, lì i morsetti, le viti, il martello, le guarnizioni…”. “Bhe devo dire che hai proprio una bella cassetta degli attrezzi”. “Si, con il tempo mi sono preso gli attrezzi che mi servivano in base alle necessità. Così ho capito bene anche come funzionano e a cosa servono, quando utilizzare alcuni e quando altri”.

Al giorno d’oggi, ognuno di noi ha una propria cassetta degli attrezzi dove custodisce i propri strumenti, le proprie conoscenze e le proprie esperienze guadagnate duramente nel corso del tempo attraverso la propria vita personale, accademica e professionale. Questi attrezzi sono parte di noi, sono ciò che usiamo per affrontare i cambiamenti, i problemi, le sfide, le relazioni e la quotidianità. Possiamo dire di utilizzare sempre gli attrezzi migliori in base alla situazione che si ha di fronte?

Tendenzialmente no. Infatti, se siamo piuttosto sicuri che un tecnico di fronte ad un chiodo usi un martello o di fronte ad una vite tiri fuori un cacciavite, non possiamo dire lo stesso sul modo in cui ognuno di noi potrebbe affrontare ad esempio la perdita del proprio lavoro. C’è chi manifesterebbe la propria resilienza, ovvero la propria capacità di affrontare e di superare la situazione percependola come l’occasione di una nuova sfida personale, una nuova opportunità positiva. Sarebbe come vedere un guerriero che spinto per terra dal nemico, raccoglie la sua spada e si alza più forte di prima. Tuttavia, c’è anche chi invece manifesterebbe la propria tristezza e il proprio disorientamento, incapace di capire cosa fare e come farlo. Sarebbe come vedere un marinaio disorientato di fronte ad una tempesta.

L’approcciarsi ad uno stesso stimolo in maniera diversa tra persone diverse è stato ampiamente dimostrato dalla psicologia cognitiva e sociale e ci aiuta a capire quanto la mente (che agisce tendenzialmente con buon senso e con raziocinio) sia influenzata dal cuore (che agisce tendenzialmente con lo “stomaco”), determinando risposte comportamentali sbagliate e inefficaci. Si potrebbe dire: homo est quod est (= l’uomo è ciò che è), un misto di ragione ed emozioni, di pensieri giusti e sbagliati. Pertanto, ricapitolando, se siamo piuttosto sicuri che un tecnico di fronte ad un chiodo usi un martello o di fronte ad una vite tiri fuori un cacciavite, allora quando si parla di utilizzare le proprie conoscenze, di adottare determinati comportamenti ed atteggiamenti personali di fronte ad un cambiamento, un problema, una relazione, una sfida non sempre si può dire di far uso di tutti gli attrezzi che si hanno a disposizione, anzi solitamente si tendono a prediligere quelli che in quello stato emotivo (prevalentemente di distresssi sanno maneggiare meglio, anche se in realtà andrebbero bene altri, forse perché più precisi o forse perché più adatti al contesto che si ha di fronte. Questo accade perché più sappiamo usare bene alcuni attrezzi piuttosto che altri, più tendiamo ad usarli per diverse occasioni, anche in quelle in cui non dovrebbero servirci.

E così, ognuno di noi ha il proprio modo di affrontare i cambiamenti e i problemi. Per trovare una soluzione a tale cambiamento o tale problema tendiamo ad utilizzare la strategia cognitiva (il modo di interpretare) e comportamentale (il modo di reagire) più consueta e più economica. In altre parole, si agisce seguendo gli schemi interni alla propria comfort zone.

Tuttavia, per diventare un “risolutore di problemi” a 360° non ci si deve accontentare di un solo strumento, di una sola strategia di azione, ma è necessario dotarsi di una cassetta degli attrezzi pronta all’uso composta da esperienze, da conoscenze specialistiche, da pensieri logici matematici, da pensieri sistemici, da pensieri creativi, dall’intelligenza emotiva, dalla riflessione, dalla pianificazione ecc. È sufficiente? No. Infatti, bisogna anche avere la mente aperta, la lucidità e la forza di saperla usare nel pieno delle sue potenzialità, non facendosi prendere dalla pigrizia, dalla voglia di fare tanto per fare e dalla presunzione di fare poco aspettandosi tanto.

Ti faccio un esempio pratico. Qualche giorno fa stavo partecipando ad un colloquio conoscitivo per una posizione aperta nelle risorse umane e mi viene chiesto dal recruiter: “Se dovessi progettare un’attività di l’employer branding in un’azienda neofita, su che cosa punteresti? Parliamone liberamente insieme, discutiamone come se fossimo colleghi”. Domanda tecnica. Apro la mia cassetta degli attrezzi, vaglio le possibilità in base alle mie conoscenze e do come prima risposta “Si potrebbe utilizzare il digital storytelling attraverso cui trasmettere i valori aziendali più importanti tramite i punti di vista personali dei propri collaboratori. È uno strumento multimediale che se fatto bene può raccogliere consenso, caricarsi di contenuti emotivi importanti tanto da lasciare il segno in chi lo vede…” “È giusto quello che dici, ma questa attività è una conseguenza di qualcosa che viene prima, pensa a qualcosa di più semplice e concreto. Pensa ad un modo attraverso cui un’azienda può farsi conoscere, vogliamo che gli altri ci conoscano”.

“Provare a pensare in maniera più semplice e concreta”. Ci rifletto brevemente, cerco di pensare ancora più semplice, cambio schema di approccio, il focus sulla questione e mi viene in mente “Allora si dovrebbe lavorare sul proprio profilo in ogni social network (LinkedIn, Facebook, Twitter…), poi si dovrebbe esser attivi sui canali di reclutamento (LinkedIn, Indeed, infojobs…) e si potrebbe considerare l’employee advocacy. Infatti, il racconto dell’azienda è certamente più vero quando proviene dal basso, quando sono i dipendenti a raccontare in prima persona iniziative aziendali, training, momenti di team building, il rapporto di lavoro con i colleghi, eventi oppure i loro successi professionali tramite semplici post. La soddisfazione del dipendente nella sua quotidianità aziendale ha un valore immenso per l’Employer Branding, in quanto lui ne diventa il miglior Ambassador e se utilizza il proprio profilo LinkedIn per comunicare la sua soddisfazione, le esperienze, il lavoro e il proprio senso di appartenenza alla realtà per cui lavora porterà un enorme beneficio alla propria azienda, la farà percepire come un luogo di lavoro sereno e quindi diventerà ambito da altri”.

“Esattamente”. In questo modo ho cercato di mantenere la mente aperta, di cambiare flusso di pensieri con lucidità, capendo con più profondità la richiesta. Se di fronte a questa risposta mi fossi fermato, se avessi chiuso la mia cassetta degli attrezzi e mi fossi focalizzato su quella cosa che conoscevo bene ma che tuttavia non soddisfava la domanda, avrei perso. È come se di fronte ad una vite avessi preso un cacciavite, ma non avessi pensato quale tipo di cacciavite fosse più giusto (a stella o a croce). Si dimostra in questo modo quanto sia importante un atteggiamento propositivo e reattivo alle situazioni (non solo durante un colloquio, ma durante l’intera vita!). Ringrazio ancora il recruiter per questa candidate experience, perché mi ha permesso di riflettere sull’importanza di stare sempre “sul pezzo”, di rivalutare costruttivamente il mio flusso di pensieri in modo tale da raggiungere risultati più soddisfacenti.

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